Pubblichiamo un contributo di Marco Guastavigna sulla DAD e sulle piattaforme utilizzate

23 Aprile 2020

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Premessa

La prima esigenza è decolonizzare il linguaggio e costruirne uno autenticamente proprio, radicalmente critico, ma dialettico, non contrapposto al lessico compiaciuto mainstream, il cui compito fondamentale sono la fidelizzazione e l’invisibilizzazione degli aspetti contraddittori e di conflitto.

La contrapposizione è infatti una delle forme preferite dal pensiero attualmente dominante, perché permette di ragionare in termini assoluti, che prescindono da sintesi e interesse di tutti, da inclusione e partecipazione, a favore dell’espressione maggioritaria di una minoranza e del continuo sondaggio sugli orientamenti che forniscono consenso.

DAD, Innovazione, Digitale

Lasciamo esplicitamente al blocco mainstream l’uso dell’espressione gergale “la” DAD. È giusto analizzare e contestare criticamente le varie forme di didattica a distanza, ma – contestualmente – va messo in evidenza il fatto che ci possono essere diversi modi, diverse intenzioni, diverse pratiche, diverse metodologie e diversi strumenti.

E l’analisi deve tenere conto di tutti questi fattori, ovvero essere il più possibile multidimensionale.

Su di un piano generale, la discriminante fondamentale è l’intenzione, il perno su cui è stata o viene costruita la progettazione didattica ed educativa dell’istruzione.

Le varie forme di didattica a distanza – che io proporrei però di chiamare d’ora in poi didattiche a logistica variabile – possono infatti perseguire obiettivi di emancipazione o finalità di adattamento, che nella scuola secondaria di secondo grado si traduce soprattutto in flessibilità finalizzata all’occupabilità futura.

Questo è un punto fermo, imprescindibile. È, anzi, il punto di partenza, lo snodo sulla base del quale la scuola si colloca nell’area della partecipazione critica alla sfera pubblica oppure nell’area dell’adattamento alle esigenze del mercato del lavoro e della conoscenza.

Fortemente legata a questo approccio è la questione dell’innovazione (digitale).

Entrambe le espressioni sono da rifiutare e da sostituire con concetti più articolati e capaci, in quanto etichette prive di autentica valenza esplicativa.

Come dice Marco Gui, infatti, innovazione in sé non è progresso, anzi: Quali sono dunque le differenze tra progresso e innovazione? Il concetto di progresso veicola l’idea di un ineluttabile cambiamento in meglio dal punto di vista socio-tecnologico. Il progresso tiene insieme passato, presente e futuro. Esso veicola una positività del cambiamento nell’ottica di un miglioramento delle condizioni di vita del genere umano e ha un’implicazione etico-civile oltre che tecnico-economica. L’innovazione è, invece, un concetto più neutro dal punto di vista etico. Esso descrive l’introduzione di nuovi sistemi, nuovi ordinamenti, nuovi metodi di produzione e simili. In un sistema che ha smarrito la fede in un orizzonte di miglioramento preciso, la velocità di produzione di novità finisce per diventare un valore in sé. Non si sa – nel concetto di innovazione – se la novità avrà un impatto positivo per il genere umano, né si ritiene di avere gli strumenti per saperlo. Ma, tutto sommato, questa preoccupazione passa in secondo piano. Ciò che interessa è che si innovi, si vada avanti, beneficiando della positività di tale novità in un periodo più breve: innovare è un bene perché, intanto, rende più competitivi nei mercati globali e locali”.

L’associazione acritica e meccanica di didattica all’aggettivo “digitale”, spesso usato sostantivato (il digitale), poi, rende il ragionamento ancora più subordinato e subordinante.

Possiamo e dobbiamo parlare, invece, come già accennato, di

  • didattiche consolidate con logistica tradizionale;

  • didattiche sperimentali con logistica digitalizzata in presenza, prevalente o di nicchia;

  • didattiche consolidate con logistica digitalizzata in presenza, prevalente o di nicchia;

  • didattiche emergenziali con logistica digitalizzata, a ridurre la distanza;

  • didattiche consolidate a logistica digitalizzata totale o prevalente, che riducono effettivamente la distanza;

  • didattiche emergenziali a logistica mista (digitalizzata e tradizionale), a ridurre la distanza;

  • didattiche consolidate a logistica mista (digitalizzata e tradizionale), che riducono effettivamente la distanza;

  • didattiche emergenziali a logistica alternata (sempre digitalizzata e tradizionale) nel tempo, a ridurre la distanza;

  • didattiche consolidate a logistica alternata (sempre digitalizzata e tradizionale, che riducono effettivamente la distanza.

E così via, dialettizzando e combinando fattori e – soprattutto – mettendo ciascuna delle “didattiche” individuate come in atto o potenziali in stretta relazione con le intenzioni progettuali, perché ognuna può ancora avere intenzione emancipante vs intenzione adattiva.

Vigilanza critica

Un approccio militante alla questione “didattiche a logistica variabile” e loro intenzione progettuale e fattiva deve pertanto tenere conto dei fattori individuati nel paragrafo precedente e, inoltre, di due forme di processo decisionale, ovvero quello più recente, relativo alle scelte emergenziali, e quello/i precedente/i relativo/i alle scelte della scuola nel campo dell’uso, dell’acquisto, della organizzazione e della distribuzione dei dispositivi digitali.

Processi che possono essere stati partecipati, collettivi, negoziati, paritari oppure inerziali, ristretti, delegati, gerarchici.

La vigilanza va applicata anche alle procedure di monitoraggio e di verifica dei risultati effettivi, magari confrontati in prospettiva formativa con quelli attesi, a cui – nella attuale situazione e in tutte quelle in cui si prevede il ricorso al possesso sociale dei dispositivi digitali – va aggiunta un’attenta indagine su quanto effettivamente presente presso la famiglie e su ciò che le scelte degli istituti scolastici prevedono e – di fatto – pretendono, a partire dalle connessioni e dalle relative tariffe di abbonamento.

Quasi inutile dire che va sempre tenuto in massimo conto se e come vi siano stati passaggi decisionali e procedure di verifica nella direzione dell’inclusione e dell’accesso universale e non invece misure e scelte con effetti potenzialmente o – peggio – di fatto discriminanti.

Nozioni emancipanti sugli “strumenti”

Si fa per dire. Non sono solo strumenti. E tanto meno sono neutri, come stolidamente sostenuto da documenti che circolano in questi giorni, brillando per superficialità e approssimazione. Tutte le tecnologie, e quelle su base computazionale in forma estrema e per altro evidente a chi lo vuol vedere, implementano infatti visioni del mondo, della società, del lavoro e della conoscenza, che si riflettono, in termini di opportunità operative, ma anche di vincoli culturali nel loro impiego in un modo che – in assenza di consapevolezza critica – può diventare fortemente condizionante. Chiariamo.

C’è software e software

Cominciamo con una distinzione importante, ovvero quella tra software proprietario e software libero.

Il primo comprende i sistemi operativi (Windows e MacOSX i più famosi, ma anche iOS, quello dei dispositivi mobili della Apple) e moltissime applicazioni, la più nota delle quali è Microsoft Office.

Il software proprietario concede una licenza d’uso a pagamento, controlla la propria distribuzione, è protetto da brevetto e si colloca nell’ambito della produzione industriale finalizzata al profitto.

Il secondo non richiede pagamenti per l’uso e per la distribuzione, è spesso aperto e modificabile da chi ne ha le capacità e si colloca nell’ambito della conoscenza condivisa, finalizzata allo sviluppo umano. Il più famoso “pacchetto” di questo tipo è certamente Ubuntu, la più famosa applicazione LibreOffice.

La scelta tra software libero e proprietario non è quindi neutra. La consapevolezza delle differenze (non tecniche, spesso irrilevanti, ma etiche e culturali) appartiene anzi alle competenze e alle conoscenze della cittadinanza attiva e critica.

Continuiamo parlando di Android, il sistema operativo di molti smartphone che è stato sviluppato proprio da Google a partire dal kernel (la parte essenziale, senza la quale un dispositivo digitale interattivo non può funzionare) di Linux, il più importante dei sistemi operativi del software libero.

In base a questa appropriazione– che ha trasformato un prodotto della conoscenza in un elemento della creazione di valore e a cui il mondo delle licenze aperte non è stato in grado di opporsi – Google ha costruito larga parte del suo monopolio: gli smartphone basati su Android, infatti, sono probabilmente la maggioranza e sono corredati delle varie applicazioni di Google (dalla mail, al programma di navigazione al motore di ricerca, al magazzino delle App), che hanno finito per diventare un vincolo per il funzionamento corretto e completo del dispositivo, a partire dall’obbligo – evadere il quale è possibile, sia pure con un po’ di fatica – di acquisire credenziali per l’accesso ai servizi di rete. E questa è un’altra cosa che è bene sapere.

L’appropriazione della conoscenza sociale a fini di profitto e di monopolio è infatti una delle caratteristiche fondamentali del modello-Google, cattura, estrazione e elaborazione con scopo di lucro.

Il modello Google

Google Search è un motore di ricerca che funziona con parole-chiave inserite dagli utenti, utilizzate per scorrere indici relativi a risorse informative presenti su Internet e poi restituire risultati graduati per significatività mediante criteri automatici.

Il motore considera, come è ovvio, l‘occorrenza, ma anche la posizione della parole-chiave: se esse sono state collocate nel titolo della pagina o di un paragrafo, per esempio, è probabile che la risorsa sia più pregnante di un’altra in cui gli stessi termini sono invece parte del testo di una frase. Ovvero: gli algoritmi del motore di ricerca indagano, organizzano e restituiscono risultati sulla base delle operazioni logiche e semantiche messe in atto dagli esseri umani autori delle risorse indicizzate.

Insomma: siamo di fronte a un primo aspetto dello sfruttamento da parte dell’azienda Google dell’intelligenza collettiva implementata sulla rete. Ma non finisce qui: i suoi dispositivi, infatti, computano il numero di collegamenti (link) che altri esseri umani realizzano verso ogni risorsa: più sono, più essa sarà considerata rilevante. Allo stesso modo, vengono monitorate effettive aperture delle risorse indicate nelle classifiche, tempo di permanenza e ritorni su ciascuna di esse da parte degli utenti; e tutti questi elementi vengono elaborati per aggiornare just-in-time la significatività delle risorse indicizzate.

Google, insomma, vuole costantemente perfezionarsi e utilizza il lavoro gratuito dei propri utenti, disponendo delle loro “ricerche di rete” e del loro utilizzo delle altre applicazioni, dalla posta, all’agenda ai servizi geolocalizzati.

Non solo: i risultati delle nostre interrogazioni saranno adattati alle nostre scelte precedenti e via via alle nostre abitudini. Con la conseguenza che, a parità di parole chiave, i risultati di utenti diversi potranno via via differenziarsi, perché “filtrati”, secondo una logica customer care probabilmente ignorata da molti di coloro che con una certa ingenuità lo considerano e consigliano come efficiente strumento di ricerca nel campo dell’istruzione e della cultura. Mentre Google Search è uno strumento per il consumo culturale individuale, tendenzialmente just-in-time. Tanto è vero che Alphabet, la holding a cui appartiene Google, dispone anche di una versione accademica della ricerca, Google Scholar, ovviamente a sua volta profilata in modo analitico.

La profilazione degli utenti

Ciascun utente dei servizi di Google, ma anche degli altri grandi player dell’industria digitale, è trattato come un micro-target, un obiettivo per il marketing pubblicitario personalizzato (messo in atto in forma diretta o con cessione a terzi dei profili ricavati) e per l’estrazione di surplus comportamentale utile per la confezione e il commercio di prodotti predittivi e per la definizione di meccanismi capaci di influenzare il comportamento umano.

La vocazione di Facebook alla computazione di surplus comportamentale, ovvero alla estrazione di dati che consentano di prevedere e condizionare le scelte e le opinioni degli utenti, è del tutto esplicita: chi si iscrive, infatti, apre un profilo, costruisce relazioni, esprime opinioni, preferenze, abitudini di consumo e così via attraverso i “like”, le condivisioni, le amicizie, i commenti. Tutti cybermarcatori sottoposti a continuo tracciamento algoritmico sorvegliante.

Facebook e Google appartengono alla categoria delle piattaforme di intermediazione: da un lato forniscono servizi apparentemente gratuiti – in realtà abbondantemente pagati con lavoro sulla conoscenza e cessione di dati – e dall’altro si interfacciano con i clienti interessati ai loro prodotti predittivi, all’uso delle profilazioni per il marketing e per campagne mirate e così via.

L’intermediazione è un dispositivo tipico del capitalismo di piattaforma digitale, la cui modalità estrema è diventata un neologismo, ovvero l’uberizzazione del lavoro. La multinazionale Uber si propone infatti come intermediario tra presunti “lavoratori autonomi” e flessibili – i conduttori di auto – e i clienti. L’intermediario è un’ App. L’azienda Uber lucra sulla propria capacità semiplanetaria di mettere in relazione fornitori e utenti di un servizio. Il lavoratore è pagato in funzione delle corse fatte, Uber prende una percentuale; la sua App compie un continuo monitoraggio delle prestazioni, raccoglie i pareri dei passeggeri sui conduttori, definisce i prezzi in funzione della situazione del traffico e di altri fattori. Il modello dell’uberizzazione è quello utilizzato per i rider, che popolano ormai anche le città italiane. È una forma di aggressione al lavoro, che nasconde dietro la falsa attribuzione di autonomia decisionale la volontà imprenditoriale di non riconoscergli nemmeno la salarizzazione, sostituita dalla retribuzione prestazionale.

A scuola

Non ci sono dati precisi, ma è molto probabile che a scuola, soprattutto nella secondaria, stiano prevalendo le filiazioni dei grandi attori della rete, da Google ad Amazon, passando per Microsoft e Cisco, del resto ampiamente segnalati fin dal primo giorno sulle pagine del ministero dedicate all’emergenza.

Va sottolineato che il ministro li ha definiti e di conseguenza presentati all’opinione pubblica come “partner” imprescindibili e generosi, non come fornitori di servizi in qualche modo richiesti e negoziati. Sarà molto difficile nel nostro Paese, se e quando terminerà l’emergenza, non solo discutere dell’effettiva efficacia di quanto fatto, in termini di riduzione del danno derivante dalla mancanza per bambini, ragazzi e adolescenti della scuola in presenza, ma anche di politiche fiscali eque, in grado di misurare e intercettare almeno in parte gli effettivi profitti di queste aziende.

Va detto subito che tutti i player digitali hanno accettato senza batter ciglio la condizione di non estrarre dati relativi agli utenti (insegnanti, studenti, famiglie e altro personale coinvolto). Si sono infatti riservati – è scritto per esempio nell’accordo proposto da Google, su cui allego una scheda a firma del collega Luigi Tremoloso – di monitorare quanto accade per “migliorare” i propri servizi. Siamo cioè di fronte a un gigantesco e massivo beta-test: le grandi compagnie planetarie propongono le proprie piattaforme destinate all’istruzione in forma gratuita, e in cambio hanno la possibilità di monitorarne e adattarne il funzionamento in rapporto agli effettivi comportamenti di coloro che ci lavorano.

Aggiungo che il modello di funzionamento di queste piattaforme – tutte derivazioni della formazione aziendale – è in linea generale sempre lo stesso:

  • si possono organizzare classi virtuali, ovvero gruppi identificati e separati di utenti;

  • sono sempre presenti “aule virtuali” in cui svolgere riunioni e conferenze a ruoli alternabili e strumenti per svolgere attività collettive condivise e sincrone;

  • altri strumenti per distribuire, raccogliere, condividere e valutare materiali di elaborazione individuale e collettiva asincrona.

L’approccio è infatti di tipo collaborativo, il che può sembrare un paradosso: in realtà, è da tempo le aziende si sono rese conto che è la conoscenza la materia prima fondamentale per l’estrazione di valore. Il lavoro è quindi in larga misura concepito come capacità di cooperazione produttiva sui beni immateriali e sui processi intellettuali e quindi come gestione efficiente di informazioni, relazioni, comunicazioni, decisioni, saperi formali e taciti e così via.

La cooperazione, insomma, diventa un modo di procedere interno alla singola unità produttiva, assolutamente compatibile all’esterno con la competizione del mercato.

L’uso di questi ambienti esplicitamente destinati a sostenere processi cognitivi – soprattutto quando la scelta della piattaforma abbia preceduto la fase dell’emergenza e sia stata fatta dalla scuola nella convinzione di estendere le opportunità per gli allievi – è in realtà una forma di fidelizzazione precoce a meccanismi egemonici sul piano operativo e culturale, per quanto riguarda la rappresentazione individuale e sociale della conoscenza e del lavoro.

È bene sapere che vi sono anche possibilità alternative. Ovvero motori di ricerca che non tracciano e piattaforme di servizi che non richiedono credenziali – quindi identificazione – per essere usate.

Questi ambienti si collocano infatti – come il software libero, che spesso utilizzano per il proprio impianto – nella prospettiva della costruzione di conoscenza finalizzata allo sviluppo umano, che non lucra sul proprio ruolo di intermediazione, perché propone un modello in cui la cooperazione è un valore sociale prioritario, del tutto alieno da qualsiasi forma di competizione e di valorizzazione.

E a scuola è bene sapere che ci sono e perché, anche se in questo momento la loro potenza di calcolo – del tutto inferiore a quella dei grandi player – le rende magari meno efficienti, soprattutto per chi valuta in modo solo funzionale, senza attenzione alcuna attenzione etica e civile.

Chieri 23/04/2020 Marco Guastavigna

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Il contributo di Luigi Tremoloso, Cidi Torino.

I Termini di Servizio Google Suite

Tutti sanno che dal giorno di chiusura delle scuole gli insegnanti hanno cercato di attrezzarsi per poter comunicare con i propri allievi. Le scelte sono state variegate, in linea con le competenze informatiche di ciascuno e con l’approccio didattico che hanno immaginato.

Non tutte le scuole sono partite però alla pari. Alcune già da tempo si erano avvicinate all’istanza digitale stipulando i contratti proposti da Google. Altre lo hanno fatto in occasione dell’emergenza, seguendo anche le indicazioni che provenivano dal sito centrale del Miur rilanciate da quelli periferici (USR). Ma cosa hanno stipulato, che tipo di accordo? Cosa hanno fatto firmare ai genitori?

A scorrere i termini dell’accordo emergono palesi elementi di colpevole “superficialità con cui le scuole – dal Dirigente al Collegio tutto” sottoscrivono i “Termini di servizio”

In realtà, non si assumono loro la responsabilità – pur essendo a rigore considerati da Google loro gli interlocutori: “Cliente” – ma la scaricano sul genitore. E’ in realtà è quest’ultimo che sottoscrive ed accetta.

Dapprima la descrizione della Scuola:

Il nostro Istituto ha deciso di adottare la G Suite for Education, una piattaforma integrata

a marchio Google …. Le apps di Google garantiscono sicurezza e privacy, connessione

e interoperabilità, comunicazione facilitata tra docenti e studenti.

Tutti gli studenti hanno accesso ad una serie di servizi, tra i quali:

e-mail personale con spazio di archiviazione illimitato;

Google Drive, che permette di archiviare online tutti i tipi di file, senza limiti di spazio;

Google Classroom, per avere una classe virtuale nella quale lavorare attivamente e ricevere

materiale aggiuntivo da parte degli insegnanti.

A cui seguono i termini imposti da Google. Ai quali, se vuole, può accedere attraverso l’URL messo a disposizione.

Difficilmente lo fa, ma nel caso lo facesse, si troverebbe in un ginepraio. Potrebbe scoprire tuttavia diverse cose che potrebbero minare sia la sua fiducia nella scuola, sia nelle “garanzie” di Google.

Scoprirebbe che l’Accordo è scritto per non farsi leggere

  1. I termini e le condizioni – che il genitore ovviamente scorre a video – sono un elenco di capitoli – in numero di 15- scritti con lessico specialistico. Ad esempio la parte riguardante il “Trattamento dei dati; Sicurezza” inizia con: “L’ Emendamento sul trattamento dei dati stabilisce” Perchè: “Emendamento” -ci si potrebbe chiedere?-

  2. Che al fondo, dopo 15 pagine video di norme e vincoli, esistono 3 pagine di Definizioni con 50 voci che sono relative alle pagine precedenti e 11 URL

  3. Che gli URL sono interni all’accordo e che bisognerebbe non solo aprirli tutti, ma aprire tutti i numerosi link interni ad ogni nuova pagina

  4. Che esistono Servizi Compresi nell’accordo e – a scelta di Google- dei Servizi Aggiuntivi con garanzie diverse

  5. Che i servizi Compresi nell’accordo sono in numero di 8 e che quelli Aggiuntivi sono 51.

  6. Che per i Servizi Aggiuntivi Google applica criteri diversi..

Per i servizi aggiuntivi si dice infatti:

Le informazioni contenute in tutti i Servizi aggiuntivi possono essere utilizzate per fornire, mantenere, proteggere e migliorare tali servizi e per svilupparne di nuovi.”

Che vuol dire che quei dati diventano proprietà di Google per i suoi scopi.

7) Che la scuola ha mentito: Google Classroom è un servizio aggiuntivo. Non sicuro.

8) Che potrebbe arrivare al link: dove Google parla di se stesso. Delle sue 10 verità:

https://www.google.com/about/philosophy.html

L’ultima delle 10: Eccellere non basta, dice ad un certo punto:

Anche se non sai esattamente che cosa stai cercando, trovare una risposta sul Web è un problema nostro, non tuo. Tentiamo di anticipare le esigenze non ancora espresse dal pubblico globale e di soddisfarle con prodotti e servizi che definiscano nuovi standard.”

I dati che Google prende ai ragazzi servono per anticipare le loro esigenze. Non sono loro che dovranno decidersi il mondo. Google glielo farà trovare confezionato. Deciderà per loro cosa è progresso e quali valori devono contare. Potrà continuare a convincerli che la “democrazia sul web funziona”. A patto che siano loro, Google, a controllarlo. A decidere cosa è “principale”, “aggiuntivo”, “ragionevole” o “sostanziale”. (tutti termini usati nell’Accordo). A patto di poter avere a disposizione tutti i dati. Il vero potere.

Diciamolo:

che il singolo utilizzatore (sia esso accettante in proprio o per potestà ) abbia una qualche possibilità di difesa legale dall’abuso sui propri dati è una operazione ad oggi impossibile.

E anche che ci riescano le strutture pubbliche è problematico.

Perché il terreno è, in quest’ultimo caso, ampiamente compromesso, dal momento che gli Stati e i Governi spesso – per sottovalutazione, colpevole ritardo, se non accondiscendente adesione – sono costretti ad affidarsi ai servizi che le le Major della rete offrono.

Vedasi la scelta del MIur per l’emergenza Coronavirus,

Una tappa fondamentale che ha portato a questo stato di cose è stata l’accettazione della logica dell’”autoregolamentazione”.

Cioè la regola secondo la quale una azienda decide i propri standard, controlla se li rispetta e giudica persino la propria condotta per “riportare ed emendare volontariamente eventuali violazioni”( Short: “ THE PARANOID STYLE IN REGULATORY REFORM)

Come osservato da Frank Pasquale giurista (Privacy Antitrust e Power) , la logica precedente ha prodotto un modello che tratta la privacy come un bene competitivo. Presumendo che i “consumatori” si relazionino solo con i servizi che offrono il livello di privacy al quale sono interessati. Ammesso che riescano a capire quali sono.

E poi, c’è sempre la golden share: ogni interferenza per imporre delle regole non farebbe altro che minacciare un principio base del mercato: la concorrenza

 

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